Ok, facciamo finta che tu sia alle prese con un dilemma linguistico che ti tormenta da mesi – speriamo tu abbia di meglio da fare, ma oggi va così. Chi può aiutarti a risolverlo? L’Accademia della Crusca, naturalmente. Valichi il portone dell’edificio, alla disperata ricerca di uno dei saggi cruschiani. Ce lo immaginiamo incappucciato con un saio da frate, un po’ misterioso, visto che non si sa bene chi siano questi esperti linguisti. Insomma, finalmente ne incontri uno e gli esponi la tua domanda. «Saggio padre cruschiano, come si coniuga al passato remoto il verbo greenwashare? Io greenwashai, tu greenwashasti, egli greenwashò? E il participio presente? greenwashante?». Frustrante, il mondo moderno.

Alla Crusca avranno sicuramente un gran da fare con tutti questi nuovi neologismi che, ogni giorno, chiedono di essere registrati nel vocabolario. Sì, ma c’è un problema più profondo: non sono solo le parole a cambiare, ma anche il linguaggio stesso. Già – udite-udite – non sono la stessa cosa.

linguaggio

/lin·guàg·gio/

sostantivo maschile

  1. Facoltà dell’uomo di comunicare ed esprimersi per mezzo di suoni articolati, organizzati in parole, atte a individuare immagini e a distinguere rapporti secondo convenzioni implicite, varie nel tempo e nello spazio.

Punto primo: le parole non sono il linguaggio. Da una parte c’è la terminologia che cambia, a partire dal greenwashing fino alla pletora di inediti anglicismi, dall’altra c’è il linguaggio che la articola. Il lessico si evolve: alcune parole si perdono, altre restano sospese, altre ancora si scoprono. Ma nel via vai delle parole, il linguaggio cambia ritmo.

 

Il mondo corre, il linguaggio accelera?

Se è vero che il linguaggio descrive la realtà, quello della FOMO society non può essere lento. Una società enorme, incalzante, densissima sembra aver bisogno di un linguaggio ampio, veloce e ricco di vocaboli: abbiamo bisogno di tante nuove parole, da articolare in frasi sintetiche e veloci. Sembra un ossimoro, eppure è così. A cambiare è il passo, il ritmo con cui parliamo e ci relazioniamo.

Un esempio? L’informazione. Per descrivere eventi che si susseguono alla velocità della luce, del bit, del coin, del pixel, ci servono articoli lapidari con titoli esaustivi (sì, la piaga del click baiting), perché mica c’è tempo per approfondire: tra due minuti, succederà qualcosa di nuovo. Il linguaggio deve essere rapido e sempre più focused sui neologismi – in fondo, è più rapido dire greenwashing che «supercazzola per far risultare eco-sostenibile la propria azienda». D’altronde, siamo quelli con la soglia di attenzione del proverbiale pesce rosso: hai pochissimi secondi per catturarla, e conquistarla. Meno di 8”, in realtà. 

 

Il respiro si gonfia, il linguaggio rallenta?

Da questo incipit, sembreremmo destinati ad informarci per monosillabi: articoli telegrafici, libri brevissimi, flash news da strilloni e reel da una manciata di secondi. Sembrerebbe che, dal pesce rosso, saremmo presto passati al plancton… eppure, c’è un eppure, perché in questa frenesia del tutto e subito, il linguaggio sta conoscendo una nuova (contro)tendenza: si chiama long version. 

Per essere veramente cruschiani, sarebbe più corretto parlare di long form, ossia un contenuto (perché dire testo è diventato anacronistico) lungo che punta ad approfondire un tema specifico: AAA cercasi balenottere azzurre.

Tra i contenuti considerati long, troviamo per esempio già molti podcast: interviste, dialoghi, racconti della stessa intensità di un romanzo, sua maestà Barbero, fino a quelle docuserie che sviscerano trame storiche o vite famose. Ma sempre più spesso, anche nel marketing, si assiste a una decelerazione, a un lento abbandonarsi al fascino lento degli spot-cortometraggi – che affrontano storie profonde e più articolate dei canonici 30 secondi della vecchia cara réclame. 

 

Ma perché un linguaggio lento?

Perché alla fine we’re only humans. Ops, scusate. Proprio vero che gli anglicismi sono un virus altamente contagioso. E da veri umani, abbiamo bisogno di lentezza. Sì, elogio della lentezza, perché la follia meglio lasciarla a Erasmo da Rotterdam. Certo, la comodità di informarsi con testi asciutti e concisi è innegabile e il pensiero veloce poco faticoso da praticare e molto interessante per una tipologia di comunicazione basata sulla performance, ma ci basta in quanto esseri complessi? L’apprendimento è, da sempre, un processo lento e graduale, sì, abbiamo bisogno di pause e sono proprio le pause che ci permettono di respirare, tra una parola e l’altra, e comprenderne il significato. 

Perché ehi, per capire veramente le cose occorre approfondirle e il tempo degli approfondimenti è necessariamente lento e concentrato. Altrimenti siamo costretti a parlare di metaverso, greenwashing, NFT e life-work balance senza sapere veramente cosa siano – perché non abbiamo avuto il tempo o la voglia di approfondire. Che fatica, la conoscenza. Che soddisfazione, il sapere.

Insomma, se alla Crusca stanno discutendo animatamente sulla corretta coniugazione del verbo greenwashare, quaggiù sulla terra vediamo un mondo che cambia. Un mondo che corre un po’ dappertutto, senza davvero una meta, come una pallina da flipper (phygital, ci mancherebbe), ma che riusciamo a comprendere solo tornando – almeno un pochino – al tempo lento del pensiero. Il tempo necessario a questi semplici esseri umani per elaborare, anche le proprie opinioni. Capito, haters?

A pensarci bene, i long version-form-come-volete-chiamarli altro non sono che il formato più umano che ci sia: lenti, violenti, sospesi, attesi e, solo poi, presi.