rebranding

Un colpetto qua, una gonfiatina di là, e il dottore fa miracoli con la puntura: come Popolizio nella Grande Bellezza, nei panni di un severissimo chirurgo estetico. Solo che tra i suoi clienti, in coda con Jep Gambardella, non si vedono brand – da qualche tempo, preferiscono un altro trattamento: togliere, asciugare, snellire. Si sa, il rebranding è sempre più minimalista, ma attenzione a non confonderlo con la chirurgia estetica: anche se oggi, per molti, basta l’abito per fare il monaco, noi non ci accontentiamo della tunica. Guarda caso, nell’opera di Sorrentino c’è anche il cardinale Bellucci che indossa abiti santi, ma predica valori profani. 

 

Rebranding non è restyling

Logotipi asciutti, pay-off stringati, packaging minimali. Parlavamo di cinema, ma l’arte del rebranding è chiaramente scultorea: martello e scalpello, a togliere il superfluo. Sì, ma come Buonarroti scolpiva il marmo per liberare l’angelo (semicit.), così il rebranding deve limare il marchio per scoprirne i valori fondanti – altrimenti sarà solo un restyling superficiale. Non ce ne voglia Popolizio se per noi l’estetica senz’anima è solo un esercizio di stile, una pennellata da apprendista. I veri maestri del rebranding, sono encomiabili scultori: dalla pelle del logo scendono fino all’anima del brand, nella sua identità più profonda.

 

Casi (e tentativi) di rebranding

A dirla tutta, lo strumento è facoltativo: tra pennello e scalpello, c’è chi fa miracoli anche solo con una forchetta. Vedi Barilla, che per celebrare il 145° anniversario si è rifatta la facciata. Sì, ma non solo per estetica, visto che la scelta di un logo più audace voleva esprimere “l’impegno concreto verso la sostenibilità”. Sono solo parole? No, perché dal suo packaging Barilla ha levato la storica finestrella trasparente – sacrificio totalmente sostenibile: in un anno, ha risparmiato 126 tonnellate di plastica. 

Ma quando il rebranding si ferma alla chirurgia, partorisce qualcosa come il timido restyling di Lamborghini. Pasta o foraggio, date al toro ciò che vi pare, tanto è a digiuno: nel nuovo logo, sembra un filo inappetente. Più asciutto e smunto, forse andava liberato dal recinto (qui, lo scudo), perché alla fine dell’operazione, dal maneggio non sono usciti manco i valori. Il toro snellito non è un vero cambiamento, ma un semplice abbellimento, un adattamento al design che cambia con la società. 

Fuori dal concessionario, imbocchiamo l’autostrada e incontriamo Decathlon, che in quanto a rebranding è davvero una stella polare. Anche perché, nel logo, c’è davvero una North Star stilizzata – con tanto di nuovo purpose globale: move people through the wonders of sport, per illuminare il tracciato di amatori, atleti e sportivi della domenica. Non solo un rifacimento con tinte più decise e una font ben levigata, ma un restauro profondo per consacrare l’identità del brand, che spazia da un impegno alla sostenibilità fino alla trasformazione del business. Si direbbe che nel marmo, Decathlon, ci ha trovato davvero un (nuovo) angelo. E per noi, è 100% santificato. 

 

C’è miracolo e Miracle Blade

Insomma, a ristrutturare facciate sono bravi tutti, ma per gridare al miracolo del rebranding non basta dare un taglio al pane in cassetta (anche se lo avremmo guardato in loop per tutta la vita, lo voglio!)… c’è da scendere in cantina, dove sono custoditi i pilastri del brand, mission e vision, a reggere il tempio – non a caso, oggi si parla di brand loyalty. Quindi, occhio alla lealtà, verso se stessi e verso il consumatore: le illusioni da riempimento di qualche ruga, si sa, durano poco.