Lavoro, un termine che tutti conosciamo e che può generare stati d’animo differenti: sollievo, se lo abbiamo appena trovato dopo lunga ricerca – ansia, se non siamo felici o soddisfatti di ciò che facciamo – a volte sacrificio, quando viene avvertito come dovere, qualcosa che pesa sulla nostra esistenza ma che è necessario svolgere. Il famoso che s’ha da fa’ pe’ campà.

Ma se nell’ultimo decennio – facciamo finta di avere la memoria corta… – la “pagnotta” ce la siamo sudata a suon di levatacce, seguite da 10/12 ore al giorno davanti al pc con gli occhi crepati di sangue e pacche sulla spalla solo immaginate nelle poche ore residue in dormiveglia, beh, nell’ultimo periodo c’è (non ovunque, ma si sente nell’aria) un cambio di trend. Dal modello nord-europeo della settimana corta agli esempi virtuosi tutti italici che ritengono la qualità della vita e del tempo libero una condizione fondamentale affinché si possa lavorare più sereni e produrre meglio – santissimo Brunello.

 Ma nell’aria c’è di più e non è odore di michetta! Stiamo assistendo al passaggio dalla standardizzazione, per non chiamarla totale omologazione dei curriculum (se volete mandarci il cv, per favore: non in formato europeo, non in inglese.) con la conseguente santificazione delle vecchie e impolverate hard skill, a un approccio ad personam, più disteso e “morbido”. Signore e signori, benvenute soft skill.

 What? Ok, la Treccani le definisce così: 

Soft Skills

loc. s.le f. pl.

Competenze relazionali: capacità che comprendono il modo di porgersi e di interagire nell’ambiente di lavoro.

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Queste abilità non sono visibilissime a colpo d’occhio – no, nessun superpotere alla Marvel, solo non si tratta più di elementi comprovabili con lauree, attestati e job alla chi ce l’ha più lunga, ma di caratteristiche personali che si manifestano nel momento del bisogno, in questo caso durante l’attività lavorativa. Contrariamente alle parenti lontane hard skills, facili da valutare perché snocciolate su ogni profilo LinkedIn che si rispetti, le soft non entrano a gamba tesa, anche per dovere sintattico, ma si palesano con l’esperienza sul campo e si trasmettono, a buon intenditor HR, attraverso un contatto UMANO diretto: il dialogo vis-à-vis, aka il colloquio conoscitivo.

E a proposito di LinkedIn, un sondaggio condotto proprio sul network rivela che oltre il 65% dei top manager HR ha ammesso che sia possibile valutare la presenza di soft skills in un candidato solo durante il colloquio compiendo una sorta di screening:  analisi delle espressioni facciali, studio del linguaggio del corpo e del tono della voce. Un po’ il neuromarketing delle assunzioni.

Le soft skills (o competenze trasversali) sono rare, oggi ricercatissime e hanno tutte a che fare con l’intelligenza emotiva, le capacità relazionali, la creatività e le abilità naturali delle persone. Sì, persone, il professionista viene dopo le qualità individuali e intime, quelle che non si imparano a scuola ma derivano da un innato senso di leadership – quella sana eh, che non ha minimamente a che fare con la figura del “capo” – e di empatia, alimentati dall’esperienza di team.

Ma bando alle fuffe, si dice che le amiche soft si possano categorizzare in 6 macro voci, quindi vediamole:

  1. La comunicazione: con questo termine si identificano diversi talenti. Essere in grado di esprimersi in modo corretto con chiunque – dai colleghi ai clienti, essere buoni ascoltatori, avere doti di empatia, saper interpretare il linguaggio non verbale e scrivere bene, in maniera fluida e chiara.
  1.         Il pensiero critico: qui rientrano capacità di analisi, saper valutare le situazioni per come si presentano ed essere capaci di prendere decisioni. Inoltre si possono includere anche la creatività, la capacità di osservazione, la creatività, la flessibilità e la voglia di imparare sempre cose nuove. Nessuna paura davanti ai cambiamenti e capaci di trovare soluzioni, il meglio noto come think outside the box.

  1.         La leadership: significa avere la visione d’insieme, vedere tutti gli ingranaggi e conoscere pregi e imperfezioni di ciascuno. Essere in grado di prendere decisioni, ma anche di delegare quando necessario e riconoscere i meriti altrui.

  1.         L’atteggiamento positivo: collaborazione, educazione, energia, pazienza e rispetto sono le parole chiave per essere apprezzati nell’ambiente di lavoro e, diciamolo, stare bene anche con se stessi.

  1.         La capacità di lavorare in team: questa è forse una delle richieste più celebri e diffuse sugli annunci di lavoro, ovvero la capacità di saper collaborare con i propri colleghi. In questa categoria rientra anche la predisposizione ad accettare le critiche, saper gestire situazioni complicate o stressanti. Avere una mente aperta ed essere in grado di interagire con tutti, anche con chi non ci sta esattamente simpatico.

  1.         L’etica del lavoro: rispettare gli altri, le scadenze, dimostrarsi affidabili, capaci di organizzarsi e orientarsi verso l’obiettivo. In estrema sintesi: essere non solo professionali, ma diventare dei professionisti.

 

Insomma, le soft skills sono il cosiddetto valore aggiunto, quel quid in più, quel plus che, a parità di formazione scolastica ed esperienza lavorativa con altri candidati, spingono a scegliere una persona rispetto ad un’altra. Insieme al feeling, ovviamente. Siamo sempre esseri umani.

E in un mondo sempre più hard – con anche Supersex è in arrivo – e disumanizzato, l’approccio soft, fuori e dentro alle aziende, è forse rimasta l’unica ancora di salvezza?
A un po’ di morbidezza l’ardua sentenza.