I social non esistono, ma il Social sì

Ott 24, 2025

Un bar, una galleria, una discoteca. Sul primo, l’insegna di Facebook: in legno tarlato, sgranocchiato dal tempo, come quelle dei pub di provincia, dove oggi si incontrano i boomer per le – solite – chiacchiere da bar. Nella seconda, il grande museo: Instagram, che allestisce la collezione “Vacanza Gallipoli 2012”, foto abbagliate stile Retrica. E il party, con flash epilettici e dj set da Tomorrowland, è live su TikTok, il sold-out magnetico della GenZ: non te ne vai mai. E gira tutta la stanza.

Bene, demolite tutto: oggi c’è un solo, unico, gigantesco arsenale, che ingloba bar, gallerie, discoteche. Sì, perché i target hanno evacuato le piattaforme e ora si sparpagliano dappertutto – negli ultimi 4 anni, la presenza di boomer su TikTok è aumentata del 57%. Risultato? Al Tomorrowland ci vanno anche mamma e papà, al museo incontri volentieri qualche curioso 18enne – il 91% della GenZ ha un account Instagram attivo. 

Au revoir social strategy, quelle che dividono il PED tra target diversi, su piattaforme diverse. Contro gli anacronismi, se guardiamo al presente – e al futuro prossimo – oggi non c’è più un confine definito, un legame scontato tra piattaforma e anagrafe. Al contrario, tutti i social tendono all’uniformità – e mentre assistiamo alla fine dei social, al plurale, vediamo sorgere il monopolio del Social – al singolare. 

 

Stessa forma, stesso furto

All’epoca degli omozigoti, digitali, la sensazione è la stessa delle due gemelle di Shining: terrore. Fosse solo la demografia, ma se i target si somigliano è perché le piattaforme si stanno avvicinando, come nella Pangea – e quando tutto è identico, niente luccica davvero. 

Innovazione? Macché, è un’epoca triassica, perché il principio è vecchio come il peccato: se non puoi batterli, caro social, alleati con loro. Che giustifica – senza convincerci – la copycat strategy, stratagemma ampiamente sdoganato per rubare le features principali dei competitor. E c’è uno storico bello ricco da consultare, di copycat, a cominciare dalle community: antica invenzione di Harvard, dove nacque Facebook, poi ripresa ovunque, anche in Russia – con Telegram. E le stories, genialata di Snapchat, se le è prese Instagram nel 2016 – che in due anni, superano i 200 milioni di utenti attivi giornalieri, condannando all’oblio i 160 del fantasmino. Formula magica, funziona: ci casca anche WhatsApp – app di messaggistica che, annusando il tiro, fa l’upgrade e diventa un social. Bye bye privacy. E il reel scrolling? Esclusiva TikTok, sì, fino all’alba del 5 agosto 2020, quando Instagram inizia a testarle in Brasile – presto worldwide, tanto che pure LinkedIn ci si affeziona. Grazie, ora i guru ce li vediamo pure in verticale. 

Gli esperti della UI/UX la chiamano app isomorphism – tecnicismo per non dire furto creativo, cioè la tendenza delle app (social) di assumere la stessa forma. Certo, l’engagement è un trittico preciso – like, share, comment – e la permanenza una formula ben rodata – reel short-form, con ganci e ritmi ingaggianti – ma mentre gli algoritmi restano un mistero, i loro effetti si manifestano nella morte dei social, che risorgono nel grande Social. Ma nella fossa, ci cascano pure i contenuti. 

 

La clonazione del content

Dove le interfacce si confondono e gli algoritmi si allineano, le regole del gioco si sovrappongono: il feed si aggiorna in continuo, certo, ma con i soliti CTRL+C e CTRL+V. Politica, cultura, arte, meme, che importanza ha? Nulla si crea, tutto si clona – stessi ganci, stessi formati, stesse lunghezze, stesse soundtrack, a prescindere dal topic. E la differenza? C’è, sì, ma solo nella safe area, a volte con il logo in alto, a volte con il logo in basso. Ma per il resto, siamo arrivati al paradosso di guardare TikTok su Instagram e Instagram su TikTok – un cortocircuito perfetto in cui la diversità dei canali non genera più varietà, ma eco. 

Sorridete, sorridete, cari social media manager senza inventiva: presto il mirroring sarà l’unica opzione. Già, perché forse non è un caso che si chiamino piatta-forme. E in questo p(i)attume generale, la creatività si perde nell’indifferenziata.  

 

Rompere il cerchio 

D’accordo, ma nel loop della clonazione – figlia del Social – come si rompe lo schema? Beh, l’unico antidoto alla somiglianza è la diversità – di idee, di creatività, di formati, sempre al plurale. Ma già prima di arrivare allo schermo: se il social media manager continua a pensare da social media manager, restiamo nel cerchio. 

Se i social si allineano, si allinea anche chi li abita – consumatori e creatori digitali, riflessi nello stesso feed. Ma occhio a non cascarci, nello specchio. E allora al bando i soliti compartimenti stagni, copy fa copy e video editor fa video – chi l’ha detto che solo il content creator possa concepire un gancio memorabile, un reel sensazionale? 

Noi preferiamo di gran lunga mescolare le carte: far parlare i linguaggi tra loro, contaminare i formati – e le menti – per liberare le idee dalle solite convenzioni. Come in un grande laboratorio, più grande dell’arsenale, che si estende dalla campagna mastodontica a un post microscopico. Anche perché se il Social omologa e il feed appiattisce, l’unica vera differenza sta nell’idea. Certo, bisogna abbandonare i soliti schemi mentali – anche perché, quando tutti si imitano, l’unico gesto sovversivo è inventare.