Beh, se Severance è diventata un cult forse un motivo c’è: a quanto pare, è il sogno di tanti – non di tutti, per fortuna – lavorare senza averne ricordo. E certo, c’è chi firmerebbe per uscire serenamente alle 18.00 – quando va bene – come Adam Scott, senza mobbing, burnout, esaurimenti vari, ma se nella serie ci pensa la biotecnologia a separare vita e lavoro, la GenZ ha scelto la botanica: tagliare il problema alla radice, e non lavorare proprio.
Pollice verde? Pare rosso, come una stroncatura – almeno secondo Intelligent, uno studio parecchio chiacchierato (alias una buona dose di blabla) condotto su un migliaio di aziende statunitensi, secondo cui 6 datori di lavoro su 10 avrebbero licenziato almeno un laureato GenZ, tra quelli assunti nel 2024. Ragioni eloquenti: mancanza di motivazione, professionalità, capacità di comunicare. E come se non bastasse, il 75% delle (stesse) aziende ha definito “insoddisfacenti” gli zoomer assunti. Insomma, nell’epoca dei dazi, in America non si fanno sconti.
Capire tu non puoi
Ma non serve andare lontano, che già ci sono mamma e papà, nostrani, a dire la loro solita ramanzina: generazione di sfaticati, i figli loro, quelli hikikomori, nerd, asociali, schiavi di TikTok, zoombie-scroller e chi più ne ha più ne metta. Già sentita, sì, ma non scordiamoci che siamo il paese europeo con il più alto tasso di NEET: persone che non studiano né lavorano e che rappresentano quasi il 20% degli under30 – l’Europa ci compatisce, con la sua media del 10%.
ALT. Fermate la polemica, leoni da tastiera, che dalla scrivania sono tutti bravi a ruggire. Perché messa così, sembra che la Z sia più una N: Nichilista, senza valori – se il lavoro nobilita, allora “i giovani di oggi” si sono scelti una vita misera. Ma noi, amanti del set, preferiamo di gran lunga la zeta, come Zoom-out, perché solo allargando il campo scopriamo che gli attori sono almeno due: il (neo)assunto e il datore di lavoro. E forse, vale la pena di mettere in scena anche l’altra generazione.
Tu chiamale se vuoi, generazioni
Ventiquattrore da un lato, tote bag dall’altra. Loft in centro a Manhattan, appartamento in periferia con i genitori. Fame di presentazioni, ansia da prestazione. Per restare in America, la prima categoria ha un identikit ben preciso: gli yuppies, young urban professionals, giovani rampanti col tatto di Don Draper – e l’isteria di Jeffrey Dahmer – che in fretta e furia hanno scalato le gerarchie, e oggi saldamente comandano la classe degli employers: i facoltosi datori che licenziano gli svogliati zoomer. American dream? No-no, ne abbiamo anche in Italia, anche loro irrimediabilmente boomer – noti anche nella variante più ironica, ma eloquente, di fattoorer.
In ogni caso, la ricetta è la stessa: bicchiere mezzo pieno, whiskey chiaramente, per scioglierci un’altra pillolina di antidolorifici e via! si lavora anche ‘sta notte. Beh, ognuno scelga la sua, tra #vitalenta e frenesia lavorativa, ma da questa prospettiva il film è chiaro: non più un monologo sulla pigrizia generazionale, ma un dramma di incomprensione reciproca, che viene fuori, chiaramente, quando stagisti e datori si mettono a confronto. Solo così, possiamo capire come mai la Z stia passando alla storia come la generazione delle Grandi Dimissioni, del work-life balance, del turnover – detto diversamente, la generazione che ha rifiutato i valori dei suoi capi.
Diritto al (non) lavoro
Ognuno scelga la sua fazione, perché sì, pare una guerra. E i dati, ovviamente, rincarano la dose: basta pensare che il 62% degli zoomer sarebbe disposto ad accettare una retribuzione inferiore in cambio di un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata. E figurarsi, tornando indietro di 30 anni, trovare uno yuppie che sacrifica un K in busta paga per uscire alle 18.00. Ma il confronto, tra generazioni, è ancora più interessante: secondo un’indagine di Deloitte, il 61% dei lavoratori della Gen Z considera il lavoro una parte significativa della propria identità, versus l’86% dei manager delle generazioni precedenti.
D’accordo, i numeri parlano, però oltre alla matematica c’è una questione filosofica: i licenziati, detti lazzaroni, hanno la sola colpa di avere altri valori. Bene puntare il dito, o la camera, sulla Z, ma occhio alle altre lettere: col campo stretto, si hanno problemi di diottrie e si rischia di non inquadrare l’alfabeto di tutti gli attori coinvolti – colpevoli, dal canto loro, di non avere altri principi che il lavoro. E allora fate attenzione, cari leoni, prima di ruggire un’altra invettiva contro i giovani svogliati: ci vuole auto-critica, prima di criticare.
Perché sì, ci sono due modi per reagire alla deriva di una generazione “che non lavora più”: licenziarla o ascoltarla. E noi, abbiamo scelto di allargare il campo – vista Zenitale, panoramica completa – perché dall’alto vediamo bene anche l’ultima lettera, che ci insegna, tendendo l’orecchio, che il lavoro è un valore, ma non è l’unico.