Parliamo di Debranding, un’altra parola molto in voga nel settore da qualche mese (in realtà anno) a questa parte. Con un “de” privativo – e per fortuna questo non è un podcast altrimenti vaglielo tu a spiegare all’ascoltatore che non è “the branding II la vendetta” – è piuttosto facile capire a cosa ci riferiamo: un processo di sottrazione

La sottrazione, seppure possa sembrare un’operazione elementare, è in realtà un percorso lento, a cui si arriva solo con l’esperienza. Pensiamo alla scrittura: gli scrittori in erba tendono tutti ad appesantire la sintassi con periodi lunghi, ricchi di punteggiatura, termini ricercati, pensieri arzigogolati e (OH GOD!) avverbi. Questo per un motivo semplice, così facendo credono di risultare più interessanti. Praticano l’addizione, insomma, sommando stili a egolatrie nel tentativo di essere notati. Pensiamo a un giovane Baricco contro un adulto inoltrato come Erri De Luca, per rimanere italici.

Ma non accade solo nella scrittura, è qualcosa che avviene in tutti i settori: l’inesperienza porta a strafare, riempiendosi di quel superfluo necessario nella fase embrionale di qualsiasi “inizio”.

Un brand non è diverso da un individuo, ha un nome, un’identità, un dna, un’estetica, delle relazioni da costruire ed è normale, in fase di start-up, arricchire il corredo genetico nel tentativo di differenziarsi dagli altri, che siano essi persone o società di persone. E questo è il branding.

Con il debranding il brand ha raggiunto un livello di maturità per cui può entrare nel processo di sottrazione, perché ha radici profonde, un’esperienza consolidata, un dialogo aperto e dei rapporti fiduciari. Il brand, di fatto, può svestirsi dell’accessorio per mostrarsi in maniera più trasparente, snella, diretta, in una parola: vera. E il vero paga sempre, lo abbiamo visto con il social reset del 2020, che ha fatto crollare le impalcature di calcestruzzo che creavano un muro di separazione tra azienda e consumatore, in favore di un confronto aperto e bidirezionale. Sì, la sottrazione crea legami, perché non mi racconti favole, se hai poche parole a disposizione le sceglierai meglio e la tua storia sarà più genuina.

genuino

/ge·nu·ì·no/

aggettivo

  1. Inalterato negli elementi costitutivi originali o naturali, autentico, schietto: un prodotto g.; spontaneo: un riso g.; notizia g., proveniente da fonte sicura e perciò corrispondente a verità.

Ok, se su Google cercate “debranding” vi usciranno principalmente articoli che parleranno di loghi, di brand come Nike, Starbucks, Ives Saint Laurent, Juventus, Chanel, McDonald’s e tanti altri che hanno fatto un rebranding epurando la propria brand image del logotipo e intervenendo sul pittogramma per renderlo più minimale. Se poi siete dei nerd e farete la scelta radicale di passare alla seconda pagina dei risultati di ricerca, troverete altri brand che addirittura, in specifiche operazioni di marketing, hanno tolto del tutto il logo sostituendolo con nomi (vedi Nutella con i nomi propri di persona), frasi o aggettivi. Ma questi sono solo una piccola parte del significato reale di debranding, che non ha a che vedere soltanto con la componente visiva di un marchio, ma soprattutto con quella concettuale e con la visione strategica.

È finita l’era del soggettivismo corporate, del business to business o del business to consumer approcciati con distacco, filtri e referenzialità, oggi siamo nel più spinto human to human, perché siamo tutti esseri umani. Quindi cari brand, spogliatevi davanti allo specchio e chiedetevi chi siete davvero e cosa potete trasmettere, perché ogni buyer persona prima di diventare buyer è persona-molto-poco-interessata-ai-vostri-vestiti. Abbandonate il troppo e create delle connessioni, perché la “&”, come direbbe il grande Erri, è una lettera che a scriverla disegna un nodo. & se non vi sentite affini alla narrativa beh, lo dice da sempre anche la matematica: meno per meno fa più.