Cromofobia, la vittoria dei grigi

Giu 23, 2025

12, 74, 36. Tombola? No, sono i numeri dei test oculistici – quelli per il check sul daltonismo, scritti sui cerchi puntinati. Mi legga i numeri, li vede? Certo, non siamo oculisti, anche se di ‘sti tempi ci vuole precauzione: a furia di scrolling, le pupille si atrofizzano. Ma a quanto pare, non è solo un problema di diottrie, in decimi, ma di esadecimali – sei cifre, come i codici dei colori. Che virano sempre più su toni freddi, desaturati, grigi: da #ffffff a #000000, da bianco a nero. Grazie, dottore, ma ci vediamo bene: e notiamo che all’epoca del digitale tutto si è fatto più grigio. Allora mettiamo a fuoco, sperando si veda almeno un po’ di rosso. 

 

Dottore, che è tutto sto grigio?

Bianco, nero, grigio – la palette delle lapidi, o delle scienze occulte, ma preferiamo consultare studi chiari. Come una ricerca di Medium, tornata in voga di recente, condotta al Science Museum Group di Londra. Fatta semplice: un’analisi sui colori di un campione da 7mila foto, conservate nel museo. Risultato? Uno spettro cromatico che scolora dalle belle tinte dell’Ottocento alla grigia monocromia del Duemila. Rip, Pantone.

 

cromofobia

Lo spettro delle foto del museo, nello studio di Medium.

 

Muore il colore, ma è pur sempre materia: e se all’epoca artigianale andava di moda il legno, con le sue 10mila varianti (e altrettante colorazioni), l’epoca elettronica è invece più asettica: ferro, alluminio, plastiche, vetri temperati, cristalli liquidi, noiosamente grigi. 

Ma non ci vuole mica una scienza: lo sanno anche i muri, di casa, che il grigio è imperante. Come una verità incorniciata, appesa sulle pareti, dove si estendono le tinte pallide dell’interior design – inno alla quiete, al relax, all’imparzialità balsamica. E via di tonalità neutre, calde e terrose, l’euforico bianco avorio o il grigio light, l’eccitante beige-malinconia o le vibrazioni sgargianti del vaniglia – si son pure inventati la variante, kitsch, del “greige”. Bleah. Non sorprende, allora, che il 67% degli interni oggi sia arredato con toni caldi e neutri, concilianti. Il gusto abbonda, come il riso, sulla bocca degli stolti. 

Cambiamo piatto, anzi stanza, dal salotto alla cameretta: e là dove un tempo sfavillavano torri policrome di LEGO o la villa viola delle Barbie, l’epilettico cubo di Rubik e i case fluorescenti del Game Boy – Color, specifichiamo – oggi abbiamo giocattoli ben più tristi. E lo dimostra, grafico alla mano, uno studio di WeTransfer. 

cromofobia

Le tinte dei giochi, secondo WeTransfer, verso un grigiore diffuso.

 

Ultimo balzo: dalle pareti ai nostri schermi, dove i colori non sembrano passarsela meglio. E se la cromofobia sembra già dilagante, nel nostro campo non troviamo né fiori né arcobaleni. D’altronde, anche le griglie di Excel non mettono allegria. 

 

#ffffff / #000000

Scala di grigi, dicevamo. Ma questo grigiore, che ha spento il fluo delle insegne al neon e i flash dei cabinati arcade, fa pendant con un’altra tendenza, arcinota, nel branding: il minimalismo. Loghi scarni, identità visive emaciate – rigida dieta contro le frivolezze, le curve sinuose e i dettagli estetici, rubricati come barocchi e virtuosistici. Basta dare un occhio, quello sano, ai rebranding più recenti, e scopriamo una legge comune: togliere, less is more, sfoltire, azzerare. Font sobrio, pittogramma (se c’è) essenziale. E nel dogma dell’austerity, visiva, anche i colori si arrendono alle declinazioni del grigio. 

Caso emblematico, nel marketing: McDonald’s, che dal 2006 smantella le insegne rosso acceso, come il ketchup, dei suoi fast food, sposando un verde spento che tradisce l’animo spensierato – Happy meal? Bei tempi, le playroom col clown truccato. Et voilà, taratatatà! più fighetto e meno pop: wanna be lounge bar, fast food dal legno scuro e le piastrelle da sala d’attesa, atmosfera bistrot per farti credere di essere in un coworking di periferia – ma il panino, bio o non bio, è sempre il solito.

 

 

E ne potremmo citare tanti altri, di rebranding ingrigiti, ma tra gli ultimi abbiamo sicuramente PayPal. Au revoir, blu acceso, avanti tutta col total black anodizzato: più minimal, più asciutto, senza troppi fronzoli. Professional, diranno loro; scopiazzato da Rai Play, diciamo noi. Ops.

 

Logo evolution di PayPal.

 

#48FB93 / #615df2

Certo, lo chiameremo trend: il grigio, di ‘sti tempi, piace. Piace perché non disturba, non brilla, non fa domande. Severo e ordinato, ligio e composto. Come i ricchi, non a caso – e sì, c’è chi suggerisce una correlazione tra status e colore. Nei quartieri gentrificati, reddito buono e vicinato distinto, il grigio domina. 

E allora, il grande bivio: da una parte, la festa delle tinte accese, sgargianti, luminescenti, con quel sapore frizzante di vintage e le grazie arricciate nel logo di Coca Cola – dall’altra, la cromofobia del branding odierno, serio e misurato, adulto, noiosamente sans serif. Risultato? Matematico: meno varietà, poca gamma, zero sperimentalismi. E appiattimento, a palate, sulla stessa palette, verso un’omologazione di grigiume ed essenzialismo – e non stupisce che il rebranding di PayPal sia curiosamente simile a quello di Rai Play. 

E va bene, tenetevi pure le scale, alla sinistra dello spettro. Noi, invece, balziamo a zigzag, e ci giochiamo due codici: #48FB93 e #615df2, rispettivamente, verde acido e viola elettrico. Sgargianti, intensi, ancora pieni di energia per ballare – indipendenti – in un mondo di cloni.