Brain rot, occhio alla marcesc(i)enza

Gen 29, 2025

Occhio alle dotte menti, spesso, mentono. Giochi di parole? Sarà, ma certo vanno di moda dalle parti di Oxford, che ha nominato “brain rot” espressione del 2024 – tradotto, “cervello marcio”. Il Dictionary è chiaro, e lo definisce come deterioramento dell’intelligenza di una persona a seguito di un consumo eccessivo di materiale online, considerato banale o poco impegnativo

Termine ombrello, insomma, per parlare di tutto e niente – e sotto l’umbrella, ella, ella, eh, eh, eh, ci piove in testa. No, non è il maltempo inglese, ma una definizione che fa acqua, perché infiocchetta un giudizio intellettuale parziale, senza considerare il tempo e il contesto sociale. Ieri c’era il sole? Scopriamo oggi che i social fanno male?  

Wait, c’è di più: le dotte menti ci mentono, dicevamo, perché il brain rot definisce una categoria specifica di contenuto: il meme, che prolifera in uno slang delirante. E allora, anfibi ai piedi, guadiamo il fiume del brain rot e immergiamoci meglio nella dichiarazione dei lord. 

 

Breve dizionario (non Dictionary) del brain rot 

E se c’è acqua, c’è umidità – habitat ideale per funghi e batteri, dove si riproduce la marcescenza cerebrale. Che, come muffa, attecchisce dappertutto: sulle pareti digitali delle community online, fino al sottobosco americano di Reddit e 4Chan. Laggiù spopola il brain rot, indigesto ai dotti, ma non a GenZ e Alpha: lo masticano online, lo rigurgitano sui social, dove è diventato un trend – tanto che Google, alla voce “brain rot”, registra un picco di utilizzo del +230%, dal 2023 al 2024.

Proprio nelle piazze, social, invise alle torri d’etere, il brain rot è una surrealista categoria di meme, prima che un deterioramento cerebrale. Nasce da un lessico fittissimo, dalle ignote origini, e ce ne dà testimonianza una canzone apparentemente nonsense: Rizzler, pubblicata l’anno scorso e considerata da molti come un vocabolario.mantra del brain rot. 

 

 

Incomprensibile? Certo, ma è volontario: per zoomer e Alpha, il brain rot codifica una chiusura, un lessico proprio che mamma e papà non capiranno mai – tant’è che un meme frequente, nel genere, è lo slang overload: il sovraccarico lessicale, di espressioni brain rot, che aggredisce personaggi incapaci di comprenderlo. Vedere per credere. 

brain rot

Dalle parole, si arriva ai video. Sceneggiatura? Macché, non esiste scrittura nei reel brain rot: short-form di una manciata di secondi, epilettici e nonsense, articolati in montaggi decontestualizzati e volutamente low quality – creature improbabili, da far invidia ai bestiari di Borges. E quasi si potrebbe farne letteratura, visto che nel brain rot assistiamo a una vera e propria epopea: post-moderna, come quella dello Skibidi Toilet, serie YouTube da ottanta episodi – ancora in corso – eletta a pietra miliare del genere. 

 

 

Noi, ora, ci limitiamo a citare la definizione di Wikipedia, già abbastanza eloquente.

La serie è incentrata su una guerra distopica tra gabinetti dalla testa umana ed esseri umanoidi aventi apparecchi elettronici come telecamere, monitor e casse audio, al posto del capo.

Dalì, spostati… da lì.

 

Sintomi di avvelenamento (da funghi)

E qui sì, possiamo parlare di deterioramento, ma attenzione: non è il meme in sé il problema, ma la sequenza infinita che, come funghi, infesta il feed – non a caso, il brain rot fa colonia con lo zombie scrolling: altro inglesismo, per esprimere la nostra passività di non-morti, davanti ai feed, dove ogni giorno scrolliamo per una lunghezza media di 300 metri di contenuti. Bella scalata eh, quanto la Statua della libertà. 

Impresa inutile, ma peggio ancora la condanna (doom) del doomscrolling. Forma perversa di marcescenza cerebrale, una vera e propria tendenza, nichilista, a immergersi nello scrolling di notizie negative, apocalittiche e, perché no, complottiste. Fenomeno nietzschiano? No, perdizione, che avvilisce il 53% degli zoomers, ma anche i millennials e per una percentuale non indifferente, il 46%. 

Scalare una statua, il device, condannarsi al nichilismo sono forme di marcescenza, ma attenzione a non ridurre il male ai meme nonsense: scagli la prima pietra chi ritiene, invece, che un reel trash, con il tronista di turno, sia un contenuto più sano. 

 

Breve storia (non History) del brain rot

Pausa breve. Riallacciamo le sinapsi e stuzzichiamo la memoria, scavando nell’etimologia. Ci aiuterà a capire che a fine Ottocento, nell’era idillica ante-social, il marciume cerebrale era già un problema. Comparso per la prima volta in letteratura, negli scritti di Henry David Thoreau, il filosofo scriveva di brain rot contro i suoi contemporanei, colpevoli di aver ridotto le “idee complesse” a “volgari semplificazioni”. 

Uomo di cultura, il vecchio Thoreau, di quella un po’ spocchiosa delle famose dotte menti, ma certo ci insegna che il brain rot è un problema secolare. Attenzione eh, non vogliamo sminuire la dipendenza da social media, scrolling compulsivo e qualità azzerata, ma a quanto pare il marciume è in giro da un pezzo. Vecchio quanto l’Era Vittoriana, oltremanica, mentre oltreoceano di brain rot s’era già ripreso a parlare nei primi 2000, su Twitter, in riferimento al marciume dei reality show televisivi, l’avvento del gaming e del dating online – scagli il primo commento roccioso chi, allo zombiescrolling, preferisce il Grande Fratello.

 

Si marcisce da sempre

Vada come vada, siamo sempre in una distopia orwelliana: tra le didascalie dell’ex Twitter e le pagine di Thoreau, apprendiamo che ogni epoca fa i conti con la sua quota di marciume. E anche se i nostalgici, oxfordiani, continueranno a fingere che sia un problema dell’oggi, la verità è che il brain rot non l’hanno capito, congedandolo come “deterioramento digitale”. I linguisti fanno bye bye e si perdono un vero e proprio lessico, che una nuova generazione sta facendo proprio, declinandolo nelle sue forme assurde – certo non sane, ma non peggio di altri format cross-channel altrettanto monnezza.

Bene, chiuso il Dictionary e gettato l’ombrello, camminiamo volentieri singing in the rain rendendo un po’ di giustizia al vero brain rot, che certo non supportiamo, ma comprendiamo nella sua inaccessibilità generazionale. Dal canto nostro, visto che la muffa sta un po’ ovunque, ci impegniamo a non alimentare la sua specie peggiore: la fuffa. Sì, perché per combattere il marciume dei social serve metterci qualità – che di acqua cheta e inconsistenza ce n’è già abbastanza.