Partiamo veloci: nel mondo delle agenzie di comunicazione ci sono dei ruoli piuttosto classici che esistono da sempre, a cui sono stati aggiunti dei ruoli più trasversali per rispondere al cambiamento della società, delle abitudini delle persone e dei mezzi di comunicazione, chiaramente. Questi ruoli, per chi non è interno al settore, sono:
- Direttore creativo
- Strategist
- Coppia creativa e in alcuni casi di fatto, aka copywriter e art.
Il tutto coordinato da un account, in alcuni casi un project manager, e condito da altre figure per gestire soprattutto i nuovi/non più nuovi media: SMM, Community, Campaign e chi più ne ha meno ne metta, nella vecchia regoletta dell’ottimizziamo le risorse.
Perché questo incipit? Molto semplice: crediamo che questo assetto sia anacronistico.
anacronistico
/a·na·cro·nì·sti·co/
aggettivo
- Che non corrisponde, o contrasta, con le esigenze o le caratteristiche del proprio tempo.
Eh sì, i tempi sono cambiati, direbbero le nostre nonne.
Siamo passati dal product-telling, con i prodotti al centro della comunicazione e degli investimenti media, al brand-telling, quando le aziende hanno iniziato a investire su di sé perché un prodotto lo puoi anche cambiare ma un brand resta (che claim!), arrivando al blasonato storytelling. Perché lo storytelling? Beh perché un dialogo – questo è o dovrebbe essere la comunicazione marca/consumatore – troppo brandcentrico rischia di essere declassato a monologo e perché dai, una storia tira sempre e quando una storia tira succede quello a cui tutti ambiscono: la storia viene trasmessa, tramandata, condivisa, entrando in dinamiche virtuose di passaparola. Il magico buzz che regala alle aziende dei brand ambassador gratuiti e, a volte, fidelizzati.
Storytelling, lo dice la parola, è l’arte di raccontare storie, usata ovunque, non solo nella comunicazione corporate ma anche nell’oratoria politica e nei discorsi di tutti, quando lavoriamo – il 90% delle nostre giornate in maniera più o meno consapevole – in chiave di personal branding. Ma una storia ha delle caratteristiche precise:
- deve essere poco autoreferenziale
- deve essere verosimile, aka credibile
- deve avere un protagonista in cui potersi identificare.
Lo insegna la settima arte, il cinema, e non è così semplice.
Ci sono troppe storie zoppe perché costruite a pezzetti, a compartimenti stagni da team diversi che si parlano con il telefono senza fili e poi assemblate, sperando che reggano. E magari camminano bene per un po’, ma poi cedono, è fisiologico.
Il motivo è principalmente uno: non c’è una narrativa strategica alla base.
E qui veniamo al nocciolo della questione – e della nascita di pe.pe – ogni brand, ci prendiamo l’onere o onore del maiuscolo, ma non l’aggressività, DEVE AVERE UNA SUA NARRATIVA. Qualcuno la chiamerebbe identità, ma un’identità forte comunicata male va bene solo per il suo ego. Un’identità è un insieme pazzesco di valori, carattere, obiettivi, relazioni. È chi sono, chi non voglio essere, con chi voglio parlare e, soprattutto, perché faccio quello che faccio. Ora, senza scomodare il Golden Circle di Sinek e l’esempio abusato di Apple, possiamo dire che è la narrativa a dare voce all’identità, ma senza strategia è una voce flebile.
La narrativa strategica è il progetto.
Quando un’agenzia riceve un brief, tende a smistare: lo Strategist fa la strategia (che molto spesso sfocia pericolosamente nella tattica), il Direttore Creativo trova il concept, la coppia fa l’execution e lo rende visivo, a volte tattile, il Media Director aggiunge strumenti e forecast e qualcun altro fa l’assemblage della ricetta. Sì ma ragazzi, manca il pepe!
Per noi un progetto è un progetto, un unicum. E l’unica maniera per gestirlo correttamente è la visione d’insieme: non un pezzo del panorama, tutto il panorama. Non c’è concept senza analisi, non c’è dato senza la giusta lettura, non c’è idea senza progettualità. Strategia e creatività non sono corpi separati, binari, rette parallele che non si incontrano se non per un saluto dal finestrino, al contrario, sono l’anima della storia che racconteremo.